Le decisioni più costose che abbiamo visto prendere alle aziende (e come evitarle)

Ci sono errori che si pagano con qualche notte insonne e decisioni che lasciano segni più profondi: budget evaporati, team disillusi e occasioni mancate. Decisioni che, una volta prese, difficilmente si possono riparare senza conseguenze.

Nel nostro lavoro ci capita spesso di entrare in contatto con imprenditori motivati e pieni di visione. Tuttavia, essere lungimiranti non mette al riparo dagli scivoloni più comuni, poiché è sempre possibile perdere di lucidità, soprattutto se sulle ali dell’entusiasmo.

Abbiamo raccolto qui le decisioni più costose che abbiamo visto prendere (e ripetere) nel corso degli anni. Si tratta di scelte che, in teoria, sembrano sensate, ma in pratica possono trasformarsi in un bagno di sangue.

Quando il rebranding non è supportato da un posizionamento.

Cambiare logo, colori, tone of voice. Far brillare il sito con una nuova veste grafica. Dare l’impressione di una nuova era. Bello, vero? Peccato che, se sotto il cofano è tutto come prima, si tratta solo di una grande messa in scena, di cui il mercato si accorge.

Ti portiamo l’esempio di un e-commerce fashion che ha investito oltre 20.000 euro in un rebranding grafico completo, mantenendo però la stessa proposta indistinta: abiti importati in white label, nessuna narrazione, nessun punto di differenziazione. Risultato? Un sito più bello, sì, ma vendite ferme.

All’opposto, abbiamo lavorato con un brand nel settore alimentare che ha legato il rebranding a un nuovo posizionamento strategico, centrato sull’origine territoriale e sulla filiera corta: stessa identità visiva rinnovata, ma anche naming coerente, tone of voice autentico e campagne con storytelling narrativo. In quel caso, il restyling ha avuto senso e ha funzionato.

Il rebranding, oggi più che mai, è spesso trattato come un’operazione estetica. Ma i consumatori sono molto più evoluti di quanto si creda: percepiscono la coerenza, premiano l’autenticità e sanno riconoscere quando qualcosa è solo una “mano di vernice”. Non basta fare il nuovo logo per cambiare la percezione di un brand: occorre che dietro ci sia una strategia solida, una nuova promessa, e un perché evidente.

Il rebranding senza riposizionamento è l’equivalente di cambiare copertina a un libro con la stessa vecchia storia.

Chi troppo vuole, nulla stringe: poco budget, mille canali.

“Facciamo un po’ di TikTok, ci mettiamo su LinkedIn, attiviamo una campagna su Google, intanto magari ci buttiamo su Pinterest…”

Così facendo, nessun canale ha il tempo e la massa critica per performare. È come cercare di fare una maratona facendo cento metri in tutte le direzioni. Meglio scegliere i canali giusti e investirci tutto, valutando i dati e capendo cosa funziona. Dopodiché poi, eventualmente, scalare. Ma quel “esserci ovunque” è spesso figlio di un bisogno più psicologico che strategico: la paura di perdere treni, che (spoiler) nella comunicazione, non si dovrebbe avere.

Il problema è amplificato dal fatto che molti canali non sono gratuiti, né in termini di tempo, né in termini di attenzione. Ogni piattaforma richiede linguaggio, contenuti, tempistiche, formati e strategia dedicati. E ogni errore costa.

I dati ci dicono che, per ottenere un’efficacia misurabile, servono almeno 3 mesi di test continuo su un canale prima di avere una curva di apprendimento solida. Diversamente, si rimane in un limbo: sempre in test e mai in scala. I budget vengono polverizzati in azioni slegate, e quando si tirano le somme, tutto “ha funzionato poco”. Ma spesso, non si è mai davvero dato a nulla la possibilità di funzionare bene.

E a quel punto, comincia la caccia al colpevole: si guarda all’agenzia, al freelance, al social media manager interno, quando in realtà il problema è una strategia frammentata che non può produrre risultati solidi. Ma tanto si sa, dare la colpa a qualcuno è più facile che ammettere una responsabilità condivisa fin dall’inizio.

L’errore di assumere chi non è adatto al ruolo.

“Prendiamo un junior, tanto lo formiamo noi.”

Ecco un grande classico. Assumere una figura junior nel marketing, magari da sola, con la speranza che diventi la bacchetta magica. In realtà, quella persona ha bisogno di guida, di struttura, di una strategia su cui innestarsi. Senza questo, si brucia tempo, si commettono errori e spesso chi paga è proprio il founder, che si ritrova a correggere, rivedere o rifare.

Ricordiamo il caso di una PMI del settore food, che ci chiamò dopo sei mesi dall’assunzione del suo primo profilo marketing junior. La richiesta, oltre quella classica di collaborazione su diverse attività, era “aiutatelo a crescere”.

La verità? Avevano lasciato una figura completamente sola: nessuna strategia, nessuna supervisione, nessuna visione d’insieme. Il risultato è stato avere landing scritte a caso, budget Meta speso senza tracciamento, report settimanale fatto più per dovere che per analisi. Dopo due mesi, abbiamo dovuto rifare tutto da zero, e quella persona, demotivata, ha lasciato l’azienda.

Secondo un report di McKinsey, l’assenza di leadership e mentoring interno è uno dei principali motivi di fallimento delle iniziative digitali nelle PMI. Assumere troppo presto, o senza la struttura adatta, genera solo disordine. Il punto però non è solo chi assumi, ma quando lo fai e con quale supporto. Un’agenzia esperta o una figura senior part-time spesso costano meno, nel lungo periodo, di un assestamento continuo da parte di chi non è ancora pronto.

La soluzione, in molti casi, è affiancare le figure junior con professionisti già skillati e competenti. Questo approccio consente di formare talenti interni nel tempo, trasformando l’apparente costo iniziale in un investimento a lungo termine. È così che, nel giro di un anno o due, ci si può ritrovare con due figure altamente performanti: chi ha portato la visione e chi l’ha assorbita, facendola propria. Ma questo richiede tempo, dedizione, capacità di insegnamento e soprattutto la volontà di costruire una cultura interna della crescita, e non solo del risultato immediato.

Lavorare senza prima confrontarsi con il mercato.

C’è chi progetta ogni minimo dettaglio di un servizio o prodotto, chi perfeziona presentazioni, processi e funnel, ma non chiede mai un feedback reale al mercato. Nessuna call, nessun test, nessuna campagna pilota: solo un lancio che non decolla, un pubblico che non capisce e un grande spreco di energie. 

Secondo uno studio pubblicato da CB Insights, il 35% delle startup fallisce perché non trova un mercato per il proprio prodotto. Un dato che dovrebbe far riflettere ogni imprenditore: il problema non è (solo) quanto sei bravo a costruire, ma quanto sei disposto ad ascoltare prima di farlo.

Nel mondo del marketing, testare non è più un’opzione, è un obbligo. A/B test, interviste qualitative e sondaggi sono strumenti alla portata di tutti. Eppure, ancora oggi, molte aziende preferiscono “fare in casa” per mesi, sperando che il giorno del lancio sia una festa. La realtà è che, senza confronto continuo, si rischia di lanciare un’idea che esiste solo nella propria testa. Le risposte sono fuori, non dentro. Mettere in discussione le proprie ipotesi è fondamentale e prima di tutto bisogna ascoltare il mercato.

Altrimenti, quando poi il lancio non funziona, si cerca qualcuno a cui addossare la colpa: spesso un’agenzia, chiamata in extremis a “sistemare tutto”. Ma neanche la migliore agenzia può risolvere un problema di fondo, dove il prodotto è fuori mercato e l’offerta non è allineata con i bisogni reali delle persone. Non è questione di media buying, di copy o di visual. È questione di aver saltato un passaggio fondamentale: ascoltare prima di comunicare.

Pensare al marketing nel modo sbagliato.

“Facciamo una campagna. Dobbiamo vendere di più.”

Frase legittima, certo, ma che spesso nasconde un fraintendimento più profondo: l’idea che basti una campagna per sistemare tutto, quando in realtà ci sono problemi di prodotto, di posizionamento, di pricing, o semplicemente di aspettative. Il marketing non è solo fare pubblicità. È costruire un sistema in cui strategia, contenuto, brand e distribuzione lavorino insieme. La pubblicità senza direzione è come accelerare su un’auto con il volante bloccato: si va più forte, ma si resta comunque fuori strada.

Nell’era dei social e delle performance, la pubblicità è diventata, appunto, un acceleratore. Ma come ogni acceleratore, funziona solo se c’è qualcosa da spingere. Secondo uno studio Nielsen, l’80% dell’efficacia di una campagna pubblicitaria dipende dalla qualità creativa e dalla strategia che la sorregge. Solo il 20% è imputabile alla piattaforma o al media buying.

Un caso interessante è quello della campagna “A British Original” di British Airways. Lanciata nel 2022, la campagna si è basata su un’intuizione strategica semplice, ma intelligente: al centro di ogni viaggio c’è una motivazione personale, unica.

L’idea creativa è stata quella di sostituire la classica domanda dei moduli doganali – “Motivo del viaggio?” – con centinaia di risposte creative e personalizzate, come “Perché voglio sentirmi di nuovo me stesso” o “Perché ho bisogno di un po’ di silenzio”. Il tutto accompagnato da una pianificazione media strategica, con annunci dinamici e adattivi in OOH, digital e TV.

Il risultato è quello di un brand posizionato non solo come compagnia aerea, ma come facilitatore di esperienze significative. La campagna ha ottenuto un +24% di consideration del brand tra i frequent flyer e ha generato un’ondata di earned media, con una copertura spontanea e globale. Questo dimostra che l’idea – se allineata a una strategia solida – può fare la differenza molto più di qualsiasi boost pubblicitario.

Ecco perché il marketing non può essere ridotto alla semplice esecuzione. La pubblicità moltiplica ciò che c’è e se manca un’identità chiara, un messaggio distintivo, una strategia di fondo, ciò che si amplifica è il rumore. E il mercato, oggi più che mai, non ha pazienza per il rumore.

Di questo argomento ne abbiamo parlato anche in un altro nostro articolo: I contenuti non vendono. Le idee sì, sottolineando come la forza dell’idea e della strategia, siano ciò che fa davvero la differenza.

Scegliere bene è il primo passo per dare una svolta all’azienda.

Fare impresa richiede scelte, ma le scelte non sono tutte uguali. Alcune portano avanti, altre fanno girare in tondo e altre ancora costano caro, senza preavviso.

In Ribrain, non abbiamo la pretesa di avere la formula magica, ma una cosa la sappiamo fare bene: aiutare le aziende a prendere decisioni più lucide, efficaci e allineate con ciò che vogliono diventare.

Se ti è già capitato di fare uno di questi errori, sappi che non sei solo. Se invece vuoi evitarli prima che accadano, parliamone. Anche solo per capire da dove partire. Del resto, vuoi davvero aspettare che sia il mercato a farti notare l’errore o preferisci avere accanto qualcuno che te lo dica prima?

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